Essere Previdenti - CdT | Settembre 2024
La rubrica pubblicata dal Corriere del Ticino e dedicata al tema della previdenza professionale, a cura di Fabrizio Ammirati.
La previdenza e la riforma
Il principio di base della previdenza professionale è che il lavoratore dipendente e il suo datore di lavoro pagano ogni mese dei contributi a una cassa pensione a favore del lavoratore stesso.
La cassa pensione investe i capitali così raccolti da tutti i lavoratori dipendenti dell’azienda con lo scopo di incrementarne il valore: in questo modo il capitale risparmiato del lavoratore, chiamato avere di vecchiaia, aumenta perché gli accumuli di contributi vanno a sommarsi ai rendimenti prodotti dagli investimenti.
Raggiunta l’età del pensionamento, il lavoratore può chiedere la conversione in rendita dei propri averi di vecchiaia o può chiedere di farsi pagare il capitale accumulato. La rendita sarà necessariamente proporzionale all’ammontare degli averi di vecchiaia accumulati e inversamente proporzionale alla speranza di vita media del lavoratore. Nel caso di riscossione del capitale, esso sarà semplicemente la somma dei contributi pagati dal lavoratore, dal datore di lavoro e i rendimenti sugli investimenti realizzati dalla cassa pensione nel corso degli anni. Il lavoratore finanzia i contributi riducendo il proprio reddito disponibile oggi per accumulare un capitale di vecchiaia futuro. Il datore di lavoro finanzia i contributi riducendo il proprio utile aziendale.
Per il lavoratore i contributi pagati alla cassa pensione come deduzione sul salario mensile e versati dall’azienda sono parte integrante della remunerazione salariale complessiva: è reddito da lavoro differito nel tempo. Per l’azienda è un costo nell’anno in cui i contributi sono pagati. Senza entrare nei meccanismi della LPP ma limitandosi a spiegarne l’essenza, la riforma della previdenza professionale opera su due elementi del sistema appena descritto: riduce il tasso di conversione degli averi di vecchiaia in rendita aumentando i contributi che vengono pagati alla cassa pensione.
In sostanza la riforma dice: il lavoratore dipendente vive di più, allora deve risparmiare di più per avere lo stesso tenore di vita al pensionamento. La riduzione del tasso di conversione e quindi delle rendite di vecchiaia risponde al problema che il pensionato - per fortuna - vive (in media) più a lungo rispetto alla pensione che riceve. Quando il pensionato vive più degli anni di speranza di vita impliciti nel tasso di conversione, il suo capitale di vecchiaia si esaurirà quand’egli è ancora in vita e gli anni successivi saranno pagati dai lavoratori attivi della stessa azienda, con una minore remunerazione finanziaria del loro capitale (per cui i lavoratori attivi avranno averi di vecchiaia più bassi al pensionamento e rendite più basse perché dovranno finanziare chi li precede con una riduzione della remunerazione sul proprio capitale e così via nel tempo).
L’aumento della base salariale su cui i contributi vengono pagati alla cassa pensione, risponde alla necessità di incrementare il valore degli averi di vecchiaia, per permettere che la rendita pensionistica rimanga ai livelli attuali anche con la riduzione del tasso di conversione. La rendita è infatti uguale ad averi di vecchiaia moltiplicati per il tasso di conversione, se si riduce il secondo fattore il primo deve salire per compensare l’effetto. Ovviamente ogni cittadina o cittadino può valutare i passaggi della riforma in maniera diversa nei termini generali descritti qui e valutare gli effetti sul proprio certificato di cassa pensione.
Contrari e favorevoli si possono comunque rallegrare del fatto che viviamo in media più a lungo dei nostri padri e dei nostri nonni.